venerdì 17 febbraio 2012

Qual è la storia evolutiva dei virus?


I virus hanno un'evoluzione specifica e indipendente da quella degli organismi che infettano?
Secondo il pensiero dominante nella scienza moderna, è ovvio che i virus abbiano un'evoluzione separata, a meno che non si tratti di organismi simbionti, ma in questo caso non si tratterebbe neanche di virus.
In realtà, però, non è così ovvio come si vuole far credere.
La concezione tradizionale si basa sulla definizione del virus come parassita obbligato, che sfrutta la cellula per replicarsi e sintetizzare le proprie proteine. Questa definizione ha un senso solo se si ammette che il virus è un “soggetto” evolutivo.
Come fare per sapere se il virus ha un "impulso" evolutivo proprio, oppure se subisce passivamente l'impulso evolutivo della cellula in cui si moltiplica? In altre parole, il virus è un "soggetto" o un "oggetto" dell'evoluzione?
E qui si aprono alcuni dei più grandi buchi teorici della biologia moderna:
1) i virus sono esseri viventi?
2) le leggi della selezione naturale si applicano anche ai virus?
3) l'evoluzione dei virus precede quella degli organismi cellulari?
Per quanto possa sembrare imbarazzante, le risposte fornite dalla scienza sono elusive, vacillanti e parziali: non sono altro che compromessi teorici per tenere in piedi alla meno peggio l'edificio barcollante della virologia moderna.
In realtà la risposta a queste domande è semplicemente “No”, “No” e ancora “No”.
Secondo la teoria del parassita il virus ha bisogno dell'organismo, ma l'organismo non ha bisogno del virus. Il primo presupposto è certamente vero perché la cellula è l'unico ambiente protetto in cui il virus trova gli aminoacidi e basi azotate necessari per la replicazione del proprio acido nucleico. Il secondo presupposto, invece, è smentito da molto tempo dai risultati di molte ricerche che riguardano soprattutto la capacità del virus di apportare sequenze genomiche utili all'organismo infettato, contribuendo ad accelerarne l'evoluzione (il cosiddetto “trasfermento genico orizzontale”), un modello già accertato nel caso dei batteri, ma facilmente esportabile a tutti gli organismi pluricellulari, uomo compreso (1)(7). Senza dimenticare, inoltre, che la cellula può utilizzare il materiale genetico virale e beneficiarne anche senza integrarlo al proprio DNA (2). Ci sono sempre più motivi per  rimettere in discussione la concezione del virus come essere vivente che ha lo scopo, l'intenzione e la volontà di attaccare e sfruttare gli organismi cellulari (5). E questa concezione rimane altrettanto discutibile anche se invece di parlare di “scopo”, “intenzione” e “volontà” utilizziamo concetti apparentemente più neutri come “caso”, “conseguenza” e “coincidenza”. Fermo restando, comunque, che la potenziale patogenicità dei virus rimane un'evidenza per tutti.
Agli occhi della scienza sembra evidente che il virus abbia il “compito” di replicarsi, ma è più onesto concepire la cosa dal punto di vista totalmente opposto: il virus non "si moltiplica" (soggetto), bensì il virus "viene moltiplicato" (oggetto). Allo stesso modo, si ammette che il virus “si evolve, si adatta” perché i loro acidi nucleici mutano e vengono selezionati, mentre sarebbe più logico dire che il virus “viene fatto evolvere, viene adattato” dall'organismo in cui viene replicato.
Come si vede, è una sottile questione di linguaggio che cambia enormemente le cose, l'ambito semantico influenza direttamente l'ambito scientifico, sebbene sia difficile accorgersene: l'evidenza delle osservazioni e degli studi dipende totalmente dal linguaggio utilizzato (6).
Veniamo alla questione della selezione naturale applicata ai virus: nella classica visione del virus come “soggetto” evolutivo si osserva che il virus replica se stesso, generando copie non identiche a causa di mutazioni accidentali e di fenomeni di trasposizione o di riarrangiamento. I migliori mutanti, a seguito di una diversa disposizione nucleotidica, codificano per molecole nuove: talvolta queste nuove molecole sono svantaggiose per il virus stesso, altre sono neutre, altre ancora lo avvantaggiano, cioè aumentano la capacità del virus di eludere e/o resistere ai meccanismi di difesa dell'organismo infettato, nonché la capacità di riprodursi più velocemente. Si pensa, quindi, che la cellula abbia per il virus lo stesso ruolo che l'ambiente naturale ha per qualsiasi organismo cellulare, cioè il ruolo di porre dei limiti, esercitare uno stress, stimolare la competizione e selezionare le caratteristiche  più adattate. Queste parole descrivono giustamente un fatto oggettivo, ma la descrizione in sé non è assolutamente oggettiva, e questa mancanza di oggettività deriva da una classificazione errata, che nel pensiero di chi osserva precede, e non segue, la descrizione del fatto. Il semplice fatto che i virus presentino mutazioni genetiche da una generazione all'altra e che gli effetti di queste mutazioni sembrino andare nel senso di una selezione, non è sufficiente per affermare che i virus sono esseri viventi che ubbidiscono alle leggi della selezione naturale, cioè che si evolvono in senso darwiniano.
Con un minimo sforzo di onestà intellettuale bisogna ammettere che c'è una differenza abissale fra il dire "un virus ha lo scopo di attaccare una cellula per riprodurre il proprio DNA" e il dire "la cellula sforna un virus con lo scopo di trasmettere un po' di DNA ad un'altra cellula", sebbene queste due osservazioni descrivano esattamente lo stesso fatto, la stessa evidenza. Ed è un abuso continuare a dire che il virus è un "parassita": per essere un parassita bisogna prima essere un essere vivente, e il virus per l'appunto non lo è.
I virus non sono nient'altro che meccanismi di trasmissione di materiale genetico da una cellula all'altra (appartenenti o meno allo stesso organismo), un meccanismo inventato e perfezionato dall'organismo in questione, sia esso monocellulare che multicellulare.
Penso che la maggiore difficoltà che impedisce di rimettere in discussione il modello attuale dei virus derivi dall'influenza della teoria del gradualismo filetico del Neodarwinismo degli anni Trenta e della teoria genocentrica di Richard Dawkins degli anni Settanta, le quali dominano ancora  incontrastate il panorama odierno della biologia e di tutte le scienze correlate.
La teoria del gradualismo filetico, secondo cui i cambiamenti osservabili su grande scala sono sostanzialmente riconducibili all’accumulo di piccole variazioni, è stata smentita dalla teoria degli equilibri punteggiati che, in considerazione della documentazione fossile, constata la stabilità delle specie nel tempo e concepisce le specie come entità biologiche irriducibili, non più arbitrarie, poiché discrete sia nello spazio che nel tempo.
Per quanto riguarda la teoria genocentrica, invece, secondo cui è il gene (non l'individuo) l’unità su cui agisce la selezione e gli organismi non sono altro che intermediari fra i geni e l’ambiente, è stata smentita dalla teoria gerarchica secondo cui la natura manifesta livelli di organizzazione le cui proprietà non possono essere ridotte all’attività dei livelli sottostanti; ciascun livello è sorretto dall’attività del livello sottostante, ma manifesta rispetto a esso delle proprietà nuove.
La scienza è giustamente arrivata alla conclusione che l'unità fondamentale della vita sia l'unione di tre elementi: una membrana lipidica doppio strato, un sistema proteico per il metabolismo e un sistema di trasmissione dell'informazione sotto forma di polimeri nucleotidici (3)(4). E' ormai riconosciuto che i meccanismi evolutivi della selezione naturale operano solamente su esseri che posseggono questi tre elementi. Non è invece il caso del virus che ne contiene solo due.
I paladini della fazione più materialista e riduzionista del razionalismo cartesiano tendono a snobbare queste obiezioni trattandole come questioni astratte di natura semantica e filosofica che non hanno nulla a che fare con la scienza. Questa affermazione è preoccupante perché vuol dire che non si è neanche più capaci di rendersi conto che il linguaggio da noi stessi utilizzato plasma e modella la nostra visione del mondo, a prescindere dall'applicazione dei principi di rigore scientifico. Nessuno di noi è immune da questa influenza, perché è insita nella natura stessa dell'intelligenza concettuale umana. Quindi, credere che frasi come “il virus si evolve”, "il virus attacca la cellula" "il virus ha lo scopo di riprodursi" "il virus è in competizione con il sistema imunitario" siano semanticamente neutre e scientificamente inoppugnabili, è un grosso errore ed un pericoloso abuso: da un punto di vista pratico cambia tutta la visione del funzionamento virale e della sua interazione con l'ospite.


Una descrizione molto più oggettiva del rapporto virus/ospite è stata fornita da Guy-Claude Burger (1)(8), che utilizza l'analogia del plasmide F.

Il Plasmide F è un piccolo filamento circolare di DNA presente nel citoplasma di alcuni batteri (il caso più conosciuto è quello dell'Escherichia Coli) e distinto dal cromosoma batterico. Come tutti i plasmidi, il plasmide F svolge varie funzioni non essenziali, ma conferisce alla cellula proprietà speciali, proprietà metaboliche uniche, ed influisce sulla variabilità genetica avendo la capacità di spostarsi tra cellule (di organismi appartenenti alla stessa specie o a specie diverse). Oltre a tutto ciò, il plasmide F contiene anche il "fattore di fertilità", una sequenza di geni che controlla la produzione dei cosiddetti "pili sessuali": questi sono lunghe strutture proteiche a bastoncino che permettono la coniugazione batterica.
1) un primo batterio dotato di plasmide F "attracca" un batterio privo di plasmide F tramite il pilo sessuale
2) lo attira a sé depolimerizzando il pilo stesso
3) crea un "ponte citoplasmatico", cioè un poro attraverso le membrane cellulari dei due batteri
4) trasferisce una copia del proprio plasmide F al secondo batterio
5) a questo punto il batterio ricevente è diventato anch'esso capace di donare una copia del proprio plasmide F ad un altro batterio che ne sia privo.
Il funzionamento dei plasmidi F è stato equiparato a quello degli episomi e dei genomi virali (sia di cellule procariote che eucariote) in quanto possono avere un ciclo di vita indipendente all'interno della cellula, oppure possono integrarsi nel cromosoma cellulare: in quest'ultimo caso, durante la coniugazione esso può trasferire una porzione di cromosoma da una cellula all'altra, e alla fine della coniugazione avviene una ricombinazione tra il cromosoma della cellula ricevente e le parti del cromosoma della cellula donatrice.
La scienza ufficiale è arrivata addirittura a riconoscere che i plasmidi, gli episomi, i trasposoni e i virus possano avere la stessa origine. (9)
La teoria genocentrica di Richard Dawkins, però, definisce gli episomi e i genomi virali come "DNA egoista" partendo dalla considerazione che essi si diffondono formando copie aggiuntive di se stessi all'interno del genoma e che essi non forniscono alcun contributo specifico al successo risproduttivo dell'organismo ospite.
Guy-Claude Burger, invece, ipotizza che i virus siano stati "inventati" dalle cellule procariote ed eucariote con lo stesso scopo dei plasmidi, cioè il trasferimento genetico orizzontale, come ad esempio il meccanismo che permette ai batteri di adattarsi velocemente agli antibiotici.
Affermare che l'organismo sia "l'ospite" del virus dipende dalla convinzione secondo cui il virus e l'organismo siano due entità vitali di pari livello che intrecciano un rapporto di parassitismo o di simbiosi. Il che non è vero, poiché il virus non è neanche un'entità vitale. Quello che normalmente chiamiamo "ospite", invece, è più oggettivamente un organismo che "produce uno strumento biologico" costituito da materiale genetico in un involucro di proteine ed una membrana lipidica. Questo strumento viene "espulso" nell'ambiente extracellulare ed è "destinato" a viaggiare all'interno dello stesso organismo o nell'ambiente in cui l'organismo vive, "col compito di trasmettere" il materiale genetico in questione ad altre cellule dello stesso organismo o di altri organismi della stessa specie.
Almeno sono certo che questa descrizione è coerente con la definizione di "essere vivente". Le conseguenze sono macroscopiche, perché il modello “infettivo” che normalmente utilizziamo per batteri, miceti e protozoi dovrà essere totalmente modificato per poter essere applicato ai virus. L'infezione virale non rappresenta più una competizione fra due specie in lotta fra loro, bensì un malfunzionamento inerente al meccanismo evolutivo di una singola specie, che “lotta con se stessa”, nell'ignoranza dei meccanismi che hanno portato al malfunzionamento stesso. Viene spontaneo fare un raffronto con il meccanismo patologico autoimmune, in cui gli anticorpi che normalemente ci dovrebbero difendere si rivoltano contro di noi.
Continuando il ragionamento, il paradigma attuale dice che "la patogenicità è il comportamento normale dei virus e il fatto che possano essere innocui o benefici è un'eccezione alla normalità", sebbene le scoperte scientifiche lascino intravedere che la stragrande maggioranza dei virus sono benefici o apparentemente innocui. Secondo il nuovo paradigma, invece, bisognerebbe invertire la convinzione: "l'effetto benefico del virus costituisce il comportamento normale del virus, mentre la patogenicità ne costituisce l'eccezione degenerativa, e l'innocuità è solo apparente".
Ne consegue che, invece di chiedersi "perché quel virus non è patogeno?", ci si dovrebbe chiedere "perché quel virus non è benefico?"
Sia ben chiaro, io non sono negazionista, le malattie virali esistono, i virus stessi esistono e la scienza moderna ha il merito di averli individuati con precisione, ma credo che le basi della virologia abbiano bisogno urgente di  essere riviste e liberate da dogmi e pregiudizi.

PS: visto che ho parlato di teoria genocentrica, devo osservare che lo stesso Richard Dawkins apporta inconsapevolmente una conferma alla critica che io espongo in questo articolo. Ai miei occhi, infatti, la maggior scoperta di Dawkins non è stato il genocentrismo, bensì la teoria antropologica dei memi, che poi è stata ulteriormente sviluppata nell'ambito della memetica. Il meme è definito da Dawkins come una riconoscibile entità di informazione relativa alla cultura umana, che è replicabile da una mente o da un supporto simbolico di memoria, è cioè "un'unità auto-propagantesi" di evoluzione culturale.

Ciò che è interessante è che il meccanismo di diffusione dei memi viene paragonato dallo stesso Dawkins a quello dei virus, in quanto i gruppi di idee si comportano come forme di vita indipendenti e continuano ad essere trasmessi anche a spese dei loro ospiti solo perché sono adatti a venire ritrasmessi. Sebbene questa analogia sia controversa, bisogna ammettere che apre alcuni interessanti interrogativi, uno in particolare: se, a prescindere dal loro destino, tutti i memi traggono la loro origine dall'individuo o da gruppi di individui appartenenti alla specie umana, perché non potrebbe essere il caso anche dei virus? ...meditate gente...

Lista di referenze non esaustiva:
(1) http://www.reocities.com/HotSprings/7627/ggvirus.html
(2) http://books.google.it/books?hl=it&lr&id=liO1NjlewjkC&oi=fnd&pg=PA361&dq=Viruses+as+a+factor+of+evolution%3A+exchange+of+genetic+information+in+the+biosphere&ots=jO_KiablKA&sig=dZsXiT30OdolWOUgIgTESjQ_k3A#v=onepage&q=Viruses%20as%20a%20factor%20of%20evolution%3A%20exchange%20of%20genetic%20information%20in%20the%20biosphere&f=false
(3) http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18160077
(4) http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16547956
(5) http://creation.com/did-god-make-pathogenic-viruses
(6) http://books.google.it/books/about/The_semantics_of_science.html?id=VA3bseUrUJYC&redir_esc=y
(7) http://www.biology-online.org/articles/origin-evolution-viruses-escapeddna-rna/viruses-evolutionary-accelerators.html

(8) http://makeupyourowndamnmind.blogspot.it/2012/01/che-cose-il-metodo-per-la-rieducazione.html
(9) http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/9873943
 

4 commenti:

  1. Molto molto interessante questo post Fausto. Complimenti!

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  2. Molte nozioni del genere puoi trovarle in questo libro:

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